Testimonianza per il congresso nazionale degli infermieri dei reparti dialisi.
Buongiorno a tutti, mi chiamo Irene Vella, sono giornalista, ho 41
anni, un marito, due figli, due cani, e un rene
all'attivo, l'altro l'ho donato a Luigi (il marito per l'appunto) il 6
febbraio 2003, quest'anno abbiamo festeggiato il nostro nono anno di
condivisione e di rinascita. (il 6 febbraio 2012)
Sì perchè dal 2003 noi festeggiamo
due compleanni, quello nostra nascita e quello della rinascita della
nostra famiglia, allietata dopo solo un anno, dall'arrivo di Gabriele,
soprannominato ormai da tutti “lo gnomo”, il primo bambino nato in
Italia da madre donatrice, dopo solo un anno e un mese dal trapianto.
Ringrazio
in primis l'infermiera Patrizia Galeotti, dell'ospedale di Viterbo,
colei che con tanto amore e cura si occupa dei pazienti dializzati in
lista d'attesa, per aver fortemente voluto la mia partecipazione a
questo congresso, ed io sono veramente onorata di poter condividere con
voi la mia meravigliosa esperienza.
Il giorno che ho scoperto che
Luigi era in insufficienza renale me lo ricordo bene, avevamo entrambi
29 anni, eravamo sposati da sei mesi e la nostra prima figlia era stata
battezzata due giorni prima, aveva poco più di due mesi.
Luigi
aveva da circa un mese dei forti mal di testa, scoprimmo successivamente
dovuti alla pressione alta, e diceva di non vedere bene in alcuni
momenti, ragion per cui gli avevo preso un appuntamento con l'oculista,
che dopo avergli misurato la pressione e aver riscontrato 150 di minima e
200 di massima, lo aveva spedito all'ospedale.
Da lì mi telefonò
Luigi, io stavo allattando al seno la mia piccolina, mi disse che era in
ospedale, che lo avevano ricoverato, e che non sapeva per quanto lo
avrebbero trattenuto, di portargli qualcosa per il cambio.....
Da
qui vado a memoria. Mi ricordo che riattaccai il telefono come un
automa, telefonai ai miei genitori, che stanno a Follonica, ad un
centinaio di km da Pisa, per tenere la bambina e poi arrivai in
ospedale.
Percorsi quei corridoi lunghissimi, attraversai quelle
stanzone così grandi e poi lo vidi: lui che è sempre stato un gigante,
sembrava piccolissimo, seduto su quel letto bianco, gli corsi incontro e
lo abbracciai forte come a impedire che qualcuno o qualcosa potesse
portarmelo via.
Quindi cominciò la processione dei dottori e il susseguirsi delle analisi.
Per
la prima volta nella mia vita, cominciai a sentir parlare di azotemia e
creatinina, non sapevo assolutamente cosa fossero, ma nel giro di pochi
giorni diventai un’esperta: erano i valori che ti mettono a conoscenza
della funzionalità renale. I reni di Luigi non andavano più bene.
Ricordo
che, durante il viaggio dall’ospedale a casa, continuavo a ripetermi
che, una volta che Luigi fosse tornato da me, sotto le mie cure, tutto
sarebbe tornato come prima: che illusa che ero, niente
sarebbe stato più come prima.
All’improvviso
era come se quella malattia si manifestasse in tutta la sua gravità:
vedevo Luigi dimagrito, ogni mattina ed ogni sera bisognava misurare la
pressione e poi i controlli in ospedale: la nostra vita cambiò
radicalmente, il mese veniva scandito dalle visite di controllo
all’ambulatorio e dalle analisi, ogni volta che ritiravamo quel
foglietto mi assaliva la paura, la paura che la creatinina salisse e che
Luigi si dovesse ricoverare.
Non si può spiegare bene a chi non
lo ha provato che cosa significa quando all’improvviso non sei più tu il
padrone della tua vita, ma un valore delle tue analisi, è come se tu
non avessi più la possibilità di prendere alcuna decisione, è la
malattia che decide per te.
Fu nel 2000 ad una visita di controllo
che sentii per la prima volta la parola “Donazione da vivente”, e lì io
ebbi la mia illuminazione, c'era il problema e c'era la soluzione, ma
non avevo fatto i conti con la testardaggine di mio marito.
Potrei
dilungarmi ore a descrivere nei minimi particolari quanto possa essere
cattiva e subdola una malattia degenerativa di questa entità. Vi posso
dire che è come essere sull’orlo di un precipizio ed avere qualcuno,
impalpabile e invisibile, che da dietro, piano ma inesorabilemente, ti
spinge
verso il vuoto, e tu non riesci a calcolare la forza della spinta e la
quantità dello spazio che ti separa dalla caduta; è una sensazione
terribile il non sapere quando cadrai ma sapere con certezza che
succederà.
Accadde una mattina di aprile, mi ricordo che andai a
ritirare le analisi di Luigi da sola e l’infermiera del distretto, che
mi conosceva, mi disse ancora prima di averle in mano che la situazione
era peggiorata e che la creatinina era salita; mi ricordo che presi le
analisi, andai in macchina e mi misi a piangere come una disperata;
ancora una volta ce l’avevo con il mondo intero, non riuscivo a capire
perché stesse succedendo proprio a me, non riuscivo a capire il perché
di tutto il dolore che stavo provando, ma non c’è mai un perché ai
dolori della vita, succede, e le uniche cose che puoi fare sono due: o
arrenderti o tirare fuori le unghie e combattere.
Presi la decisione di non soccombere al dolore ma di lottare per la bambina, per Luigi, per me.
L’amore che avevo dentro mi avrebbe aiutato a superare quei brutti momenti, ma non è mai stato facile.
Quando la creatinina comincia a salire è una salita senza ritorno.
Ancora
oggi, quando a Luigi chiedono che cosa alla fine lo abbia convinto ad
accettare il mio rene, lui risponde che, dopo tre anni di insistenze,
aveva capito che per me sarebbe stato molto peggio vederlo in dialisi
piuttosto che rimanere con un rene solo; ma la frase “facciamo il
trapianto” dalla sua bocca non uscì mai, fu un silenzio assenso.
All’ennesima
richiesta della dottoressa Paleologo su quale fosse la nostra ultima
decisione, Luigi stette zitto e io esclamai con tutta la mia voce:
“siamo pronti, cominciamo le analisi”.
E arriviamo finalmente a
quel fatidico giorno: lunedì 3 febbraio. Eravamo in casa. La nostra
bimba era all’asilo. Erano le dieci circa ed il telefono squillò.
Eravamo sul letto ed io guardai Luigi perché quel suono era diverso da
tutti gli altri, ma non ebbi il coraggio di rispondere e feci rispondere
lui: era la dottoressa che ci chiamava e ci comunicava di ricoverarci
in ospedale; era pronta una stanza per noi.
Quando senti dire da
altri “in quel momento mi è passata davanti tutta la mia vita”, magari
fai un sorrisetto di circostanza... Ma è proprio quello che successe una
volta riattaccato il telefono, è come se con un colonna sonora di
sottofondo rivivessi tutti i momenti salienti della mia vita: l’incontro
con Luigi, la scoperta dell’attesa, il matrimonio, la nascita di
Donatella e la malattia di Luigi e poi, come per incanto, la possibilità
di una nuova vita.
Non è retorica ma per me entrare là dentro è
stata come la realizzazione di un sogno, poter finalmente liberare mio
marito dalla schiavitù della dialisi era il più bel regalo di san
Valentino che ci potessimo fare.
L’unica volta in cui ho avuto un
piccolo cedimento, è stata la sera prima dell'intervento, i miei
decisero di portare la mia bambina a salutarmi, e io dopo essere scesa
giù nell’atrio dell’ospedale, l’ho vista così piccola e indifesa nel suo
cappottino, con quell’espressione interrogativa nel suo visino, come a
domandarsi perché la mamma fosse in quel posto. Allora tutte le
responsabilità di mamma mi sono piombate addosso. E se qualcosa fosse
andato storto? E se non avessi fatto la scelta giusta? Ma poi, cercando
di soffocare le lacrime, mi sono detta: andrà tutto bene, deve andare
tutto bene, perché questa è la soluzione, non ce ne sono altre.
Allora
come adesso, tante persone mi domandano se abbia mai avuto il minimo
dubbio o la paura che qualcosa potesse andare storto o non funzionare:
ebbene no, non l’ho mai avuto, mi sono imposta di pensare positivo
sempre, anche quando magari la mia testa provava a spostarsi verso altre
direzioni di pensiero, mi imponevo di non dare ascolto ai diavoletti
vari ma di avere fiducia sempre.
Io e Luigi abbiamo questo di
bello, che riusciamo sempre a non prenderci sul serio e a scherzare
anche nelle situazioni drammatiche.
Come poter dimenticare
l’arrivo in camera, ci avevano messo a disposizione la suite
dell’albergo, era la stanza più grande e luminosa del reparto.
Luigi
ancora non c’era, ma sarebbe arrivato a momenti. Io nel frattempo
guardavo fuori e mi sembrava tutto più bello, sarà stato l’effetto della
morfina (scherzo). E poi all’improvviso un tuffo al cuore: ho visto
entrare anche lui tutto pieno di tubi e tubicini per il drenaggio,per
l’ossigeno e il catetere, nonostante questo mi è sembrato comunque
bellissimo.
Mi veniva da piangere dall’emozione, non potevamo
ancora muoverci, quindi non ci siamo potuti toccare o baciare, ma averlo
lì, con me, felice, sorridente, nonostante il dolore, una sensazione
che non dimenticherò per tutta la vita.
Per me, ma penso di
potermi esprimere anche a nome di Luigi, il trapianto è stato questo: un
dono che io ho fatto a lui, ma sicuramente anche un dono che la vita ha
fatto a noi dandoci la possibilità, con la compatibilità dei nostri
gruppi sanguigni, di ricominciare a vivere.
È così che mi piace
parlare di quello che c’è stato tra me e mio marito, non è mai stato un
dovere, ma un atto dettato dall’amore dell’uno verso l’altro.
Questa
è la nostra favola, scritta di getto e tutta d’un fiato, per fermare
sulla carta sensazioni, sentimenti, ricordi, perché un giorno Donatella e
Gabriele sappiano quanto è stato grande l’amore dei loro genitori,
sappiano che il babbo si porterà sempre un pezzettino della mamma dentro
di sé e, soprattutto, perchè imparino che non può piovere per sempre e
che dopo la tempesta c’è sempre la quiete.
Sono passati solo nove
mesi dal trapianto (adesso sono passati otto anni tre mesi e otto
giorni), ma mi sembra un’eternità. Se ho deciso di scrivere queste poche
righe è perché so cosa si prova di fronte a un scelta, a un bivio. La
vita, normalmente, è incerta, insicura: in certe situazioni
non ci
sono leggi matematiche che ti possono dare una risposta, le risposte
che cerchiamo le dobbiamo trovare dentro di noi, nel nostro cuore.
A
chi mi chiede se rifarei quello che ho fatto, rispondo senza esitazioni
che quella è stata la decisione più importante e più sentita della mia
vita, adesso possiamo dire che il decorso post operatorio mi sta dando
ragione; la prima volta che io e Luigi siamo stati in ospedale per
vedere Gabriele di undici settimane ci sembrava impossibile andare a fare una visita, per così dire, di piacere...
Vederlo muovere dentro di me mi è sembrata la risposta più giusta a tutte le domande che in quei mesi mi ero fatta.
Non
so se la scelta da me compiuta possa essere considerata, in generale,
la più giusta per tutti coloro che possano trovarsi ad affrontare una
malattia degenerativa. So che è stata la scelta più giusta per noi e
sono sicura che la nostra maniera di affrontare i problemi è stata la
marcia in più che ci ha permesso di non abbatterci mai, di camminare
sempre a testa alta con la paura dell’oggi, ma con la speranza del
domani.
Vorrei che questo racconto arrivasse al cuore delle
persone che stanno soffrendo per dare una speranza di guarigione. Ogni
volta che penso a questa malattia non posso fare a meno di ricordare la
macchina della dialisi che, come ho già scritto ti lava il sangue, ma ti
leva anche la voglia di vivere.
Non posso dimenticarmi delle
persone in lista d’attesa che aspettano un organo che consenta loro di
avere una vita normale, vita che sarebbe un diritto di tutte le persone
che vengono al mondo, ma che
non tutti hanno.
E naturalmente
spero che chi si trova di fronte a questa scelta non abbia paura, ma
prenda esempio dalla mia storia per trovare il coraggio di aiutare un
proprio caro, che sia un fratello, una sorella o un congiunto.
Sapere
che il mio rene ha contribuito alla felicità di mio marito, della mia
famiglia e soprattutto a dare la vita al bambino che ancora deve nascere
(direi che adesso è ampiamente nato, altrimenti avrei battuto il record
della gravidanza più lunga della storia) mi ripaga di tutto.
Mi
sono privata di un organo ma arricchita nella qualità della stessa e
dico questo ben consapevole del fatto che purtroppo non è detto che il
mio rene duri per sempre, purtroppo non è come un diamante; siamo consci
del fatto che potrebbe avere una durata di dieci, quindici, o magari
tre anni. Quando Luigi mi ricorda questa cosa io gli rispondo che quello
che gli ho dato è un super rene e quindi lo avrà per sempre, ma se
anche questo non dovesse accadere so che quegli anni di
vita normale che sarò riuscita a donargli saranno per noi i momenti più belli di tutta una vita; rimpianti... mai.
A
tutti quelli che soffrono dico di non smettere mai di sperare e di non
smettere mai di credere nei sogni perché questi prima o poi si avverano.
Per
quanto ci riguarda, Luigi è tornato a lavorare, allena sempre la
stessa squadra che nel frattempo è stata promossa in serie A e io sono
tornata al palazzetto, come avevo promesso, a fare il tifo per quel
bellissimo mister, che finalmente ha ripreso possesso della sua
panchina.
Irene Vella tratto da “Io se metto al mondo un figlio lo faccio alle 5,42”